Quando la National Security Agency americana (pardon Satoshi, lapsus complottista), stese il white paper di una moneta digitale il tema energetico non era particolarmente sentito. Ironia a parte, il fenomeno della domanda energetica per minare un bitcoin, o la maggioranza delle altre cripto valute, è qualcosa di ormai noto. Il sistema di validazione più diffuso nel mondo delle cripto valute è chiamato Proof of Work (POW). In pratica è un sistema che, per legittimare e validare un’operazione, utilizza potenza di calcolo. Questa, una volta messa a terra, si traduce nel consumo di elettricità che un chip richiede per effettuare i calcoli complessi richiesti dalla POW e dalla domanda di elettricità che serve a raffreddare il suddetto chip. In pratica una doppia domanda energetica. Più i bitcoin (e le altre crypto) sono cresciuti di quantità più i calcoli per crearli (minarli) si sono resi complessi richiedendo sempre più energia. Inizialmente si usava il carbone, energia a basso costo altamente inquinante. Dopo che la Cina ha dato un giro di vite al distretto di Ordos (dove erano situate le più grandi fabbriche di bitcoin) i minatori digitali si sono sparsi per il mondo dal Kazakstan sino al Texas, ovunque ci fosse elettricità a costi bassi. Alcuni si sono anche sbizzarriti a estrarre energia dai pozzi di gas orfani che in America sono una vera piaga. Il processo di validazione di blockchain POW, a differenza di altri, ha una domanda energetica importante e, di norma, l’energia a più basso costo è quella del carbone, che inquina. Ora, sembra palesarsi una nuova generazione di startup che vuol fare il miracolo: bitcoin & Co verdi, amici di Greta.
Che roba è?
L’inquinamento dato da questa industria è rilevante, al pari della domanda energetica richiesta ogni anno, che aumenta. Tra le soluzioni che si stanno studiando, per ridurre l’impatto ambientale e la domanda energetica, vi sono anche sistemi di finanziarizzazione dell’inquinamento. Una serie di soluzioni assimilabili, per funzioni e attività, al carbon credit market: una approccio già esistente per le industrie inquinanti che vogliono avere una esposizione ambientale più moderata.
In numeri?
Sono oltre 300 milioni coloro che usano bitcoin & Co. Questa crescita quantitativa ha implicato danni ambientali rilevanti. Si stima che per ogni dollaro di bitcoin generano in media 35 centesimi equivalgano al danno ambientale cagionato dalla creazione di questa valuta (calcolo effettuato tra il 2016 e il 2021). Per dare un termine di paragone la benzina genera circa 41 centesimi mentre la produzione di manzo 33 centesimi. Ci sono ovviamente realtà come Ethereum che, aggiornando i loro processi di elaborazione, han ridotto il loro impatto ambientale.
Come ci si entra?
I nomi di startup che stanno operando in questo segmento sono numerosi. Ovviamente, in quanto startup, hanno le potenzialità di scalare molto rapidamente ma, egualmente, di crollare. Si aggiunga inoltre che il concetto di carbon credit, e la finanziarizzazione dello stesso, è stato, in passato, oggetto di operazioni poco chiare. Mi limito a citare quella a mio avviso più interessanti, pur ricordando che questo elenco è in continua evoluzione. Crypto Climate Accord, Moss.Earth, dClimate, Single.earth, Cascadia Carbon, Carbonbase, Aerial, Offsetra, ClimateTrade, Creol, Regen Network, Nori, Dovu.