Studi e approfondimenti
13 Febbraio 2023

Tre domande a… Mattia Rossi

L’intervistato della settimana è Managing Partner Cherry Bay Capital Group

Il mercato del private capital è cambiato e cambierà nel prossimo triennio; quali sono le principali tendenze secondo il suo punto di vista?
Pandemia, guerra in Ucraina, shortage materie prime, reshoring delle supply chain, caro energia, discontinuità di governo, inflazione record, cigni neri sui mercati (correlazione tra azioni e obbligazioni), restrizioni politica monetaria, aumento tassi, correzione titoli azionari in tutti settori (in negativo) eccetera eccetera. Come non rimanere in balia? Con il private capital: proteggere oggi significa assumere rischi superiori e posizioni di più lungo termine su asset class reali che, rispetto ad altre, beneficiano di premi di illiquidità e di volatilità inferiore perché spesso tendono ad essere de-correlati da scossoni di mercato (o quantomeno consentono di sorvolarli). 

Lo dice anche l’osservatorio di Preqin, che traccia una crescita significativa e continua dei private market con gli AUM cresciuti dal 2015 al 2021 ad un CAGR di ~14% e si prevede una crescita ancora maggiore (CAGR pari a ~ 15%) fino al 2026 che porterà i capitali gestiti in private capital a ca $ 18 trilioni. 

Il momento è propizio anche in relazione agli effetti che inflazione e costo del debito possono produrre. La prima può sostenere molti business accrescendo i profitti in valore assoluto e quindi accelerare  i ritorni nonostante la recessione. Il secondo stimolerà un approccio generalmente più prudenziale alle strutture dei deal ovvero un più cauto utilizzo della leva finanziaria. Ne deriverà un vantaggio per chi compra (specialmente per chi non lo fa con il debito) in termini di conseguente contrazione delle valutazioni ed uno svantaggio per chi esce, a beneficio probabilmente delle imprese che vedranno gli operatori costretti a puntare a strategie di creazione di valore a lungo termine, che lasciano spazio a percorsi sani di crescita industriali.

Questi mesi possono essere una grande opportunità per l’economia italiana e per le tante imprese che la compongono; quali le sue previsioni o aspettative?
In seguito ad una crescita del Pil nel 2021 del 6,5% anche il 2022 era partito col vento in poppa e burrasca Covid alle spalle. Noi, abituati ad una gestione politica “subottimale” da “primi degli ultimi” tra i paesi occidentali, ci trovavamo a navigare con Draghi capitano sulla cresta di una crescita-Italia superiore alla media europea e mondiale. Troppo bello per essere vero, infatti cambia il vento ed inizia la burrasca (leggi sopra), a fine 2022 la BCE rivede significativamente al rialzo le aspettative di inflazione e, ovviamente, alza ulteriormente i tassi d'interesse di mezzo punto. Ma il Pil Italia stupisce e chiude ca +4% un 2022. Siamo nel 2023 e l’economia rallenta sulla paura di una possibile recessione.

Gli shock degli ultimi anni (e le politiche anti-crisi basate per lo più sul debito) hanno da un lato privato le imprese di capacità di investimento in competitività nel medio periodo ma dall’altro hanno accelerato una serie di trasformazioni che stanno portando gli imprenditori di fronte alla consapevolezza (e necessità) di aprire il capitale a partner in grado di portare risorse fresche e know-how oppure ad aggregarsi. L’obiettivo dovrebbe essere superare quel nanismo che storicamente limita l’eccellenza italiana nel mondo. In questo contesto incerto non mancano le opportunità esterne: il Next Generation Eu e il PNRR offrono infatti un’occasione unica per reperire risorse preziose per rilanciare e innovare, insomma per colmare il gap di competitività con il resto dell'Europa. 

Quale il ruolo del private capital nel contesto odierno? Cosa servirebbe per poter fare di più per l’economia reale?
Esiste il private capital promosso attraverso investitori istituzionali che chiamasi “private” in quanto tecnicamente non è indirizzato a target quotate o liquide. Poi esiste il private capital promosso da operatori nuovi in grado di connettere patrimoni di famiglia ad imprese di famiglia, quindi capitali che “private” lo sono davvero. È chi ha contribuito all’economia reale che deve essere messo nelle condizioni di investire in nuova economia reale: il valore aggiunto non sta (solo) nella finanza ma (soprattutto) risiede in chi porta in dote esperienza vera di azienda, imprenditori che sanno cosa significa investire e rischiare “in proprio”, che talvolta sono partiti da zero, con visione e coraggio per sfidare lo status quo, che comprendono il valore del sacrificio e si confrontano con obiettivi audaci di lungo termine. Si può fare di più se provassimo a connettere il capitalismo dell’establishment industriale italiano con la piccola impresa per crearne di nuovo, non solo per il gusto sociale del progresso ma anche per un ritorno (non solo rendimento) che significa benessere distribuito e competitività del sistema nel quale tutti viviamo. Cherry Bay Capital Group sta facendo la sua parte operando con un modello nuovo all’intersezione tra patrimoni privati ed investimenti alternativi in economia reale grazie ad una preziosa rete di rapporti ormai consolidati negli anni con quelle famiglie che rappresentano il capitalismo industriale italiano.

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Aut. Trib. Milano n.38 dell'8 febbraio 2016
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